È la seconda volta, quest’anno, che parlo in questa sala che non so se è ancora la più bella della città, ma sicuramente è quella più carica di suggestioni e atmosfere. Sono particolarmente emozionato e anche felice. E per almeno due buone ragioni.

La prima è perché proprio qui, poco meno di 43 anni fa, feci il mio primo discorso in pubblico. Era il 24 gennaio 1971 – al tempo la Sala Ajace non era stata ristrutturata: in fondo c’era una specie di palco sovrastato da un lungo tavolone presidenziale -; era una domenica mattina e si stava festeggiando l’anniversario della fondazione del Pci. C’era un mare di folla e tante bandiere rosse. Pallido e nervoso, infagottato in un golf informe dal colore improbabile, me ne stavo lassù, appiattito sull’imponente tavolo cercando invano di non dare nell’occhio, di scomparire. Dovevo portare il saluto dei giovani comunisti friulani. Ma non era soltanto la grande folla che mi intimoriva. Per me fu una specie di esame, un rito di iniziazione e di passaggio che doveva avvenire sotto gli occhi, tra gli altri, di due personaggi che hanno fatto la storia del Friuli e dell’Italia. A sinistra avevo Mario Lizzero, nome di battaglia «Andrea»,  leggendario comandante partigiano, fondatore della Repubblica libera di Carnia. A destra c’era Giacomo Pellegrini, uno dei fondatori del Pcd’I a Livorno, che aveva conosciuto Gramsci, era stato stretto  collaboratore di Togliatti, aveva fatto la guerra di Spagna con Lister, Modesto, el Campesino, Carlos e la Pasionaria. Il mio nervosismo era giustificato. E parlando qui oggi per la terza volta nella mia vita, non potevo non ricordare con emozione la prima.

La seconda ragione è che oggi possiamo presentare alla città altri significativi  risultati del progetto al quale ho dedicato la maggior parte delle mie energie negli ultimi due anni: progetto che aveva ed ha lo scopo di sottrarre all’oblio la figura di Gian Giacomo Menon e di valorizzarne l’imponente, straordinaria produzione poetica: più di 100mila poesie, oltre un milione di versi composti nel corso della sua lunga vita. È una storia, quella esistenziale e poetica di Menon, degna di diventare un vero e proprio caso. 

Tempo fa qualcuno che mi è caro mi ha chiesto perché ho deciso di imbarcarmi in questa impresa. Per almeno tre ordini di motivi. Intanto perché ho sempre pensato e ammesso – ma non sono certo l’unico tra gli ex allievi del professore – di avere un debito di riconoscenza nei confronti di Menon: nel corso della mia vita ho fatto tesoro degli stimoli, dei suggerimenti, delle sollecitazioni che da lui mi erano venuti (ne bastino un paio per tutte: uscite dal gregge, siate voi stessi!) e ho continuato ad attingere a quella riserva, a quel tesoretto. Anche la scelta di fare filosofia all’università è un chiaro esempio di quanta suggestione lui abbia esercitato su di me. E questa convinzione non si è modificata in seguito quando, come spesso avviene, anzi come dovrebbe sempre avvenire, mi sono sottratto alla sua avvolgente, stimolante, seduttiva ma anche, perché no?, manipolatrice influenza. «Guardatevi dal grande insegnante» ammoniva Agostino che aveva un certo fiuto per le seduzioni. All’epoca il rapporto tra noi era troppo squilibrato in mio sfavore. Ma poi, dopo il liceo, quasi subito vennero il Maggio e la stagione dei movimenti, l’autunno caldo, le stragi e la strategia della tensione; l’impegno politico – almeno per me – diventò irrinunciabile e assorbente: non c’era  più tempo per la poesia né per Menon.

Il secondo motivo è legato proprio a questo brusco distacco: anni dopo, quando il rapporto tra noi avrebbe potuto essere, se non alla pari, di certo più equilibrato, ho spesso pensato che avrei dovuto tornare da Menon, ma non ho avuto la giusta determinazione. Ho quindi attinto anch’io a piene mani a quel variegato e consolatorio armamentario di alibi e di scuse cui facciamo ricorso quando vogliamo autoassolverci: lo studio, la famiglia, il lavoro, le distanze geografiche, i percorsi della vita… Quando finalmente mi decisi era troppo tardi, feci un paio di tentativi ma lui era diventato ormai inaccessibile o perlomeno è quello che allora, nei suoi ultimi anni di vita, mi fu fatto credere. Non insistetti abbastanza, mi arresi troppo facilmente. Il rammarico e il rimorso che me ne sono derivati e il desiderio di saldare comunque un debito che ritenevo e ritengo di avere nei confronti di Menon, sono la seconda ragione che spiega questo mio impegno.

Un terzo motivo che mi ha spinto è l’indignazione e il risentimento per l’indifferenza, il disinteresse, il silenzio che hanno circondato la figura e l’opera di Menon, in vita e ancor di più post mortem. Un disinteresse e un silenzio che più passava il tempo più diventavano per me insopportabili. Pensate: nel Nuovo Liruti, il dizionario dei friulani illustri o comunque degni di nota e di menzione, la voce «Menon» non c’è!

 Il libro che presentiamo stasera, l’altro uscito in primavera per i tipi di Aragno editore, il Fondo documentario costituito alla biblioteca Joppi, la borsa di studio e il sito Internet dedicato a Menon e appena inaugurato, costituiscono tutti insieme un omaggio e un risarcimento, purtroppo postumi, al mio indimenticabile professore. Perché, come canta Paolo Conte, il maestro è nell’anima e dentro all’anima per sempre resterà. Anche se c’è ancora molto da fare, da scavare, da studiare e da scoprire, d’ora in poi quando qualcuno nominerà Gian Giacomo Menon, nessuno potrà più dire tra il perplesso e il meravigliato: «Menon? Non lo conosco. Menon? Chi era costui?».

Naturalmente bisognerà che chi ha le competenze, gli strumenti, la posizione per farlo: docenti universitari, studiosi, giornalisti culturali, abbia voglia di mettersi in gioco, di «sporcarsi le mani», di rischiare affrontando l’oceano poetico menoniano. Come ha fatto da par suo, aprendo e indicando la strada, il professor Rienzo Pellegrini.

 Ma nel frattempo, per me, tutto questo progetto Menon si è piano piano trasformato anche in una specie di dichiarazione d’amore per la mia terra. Fino a un paio di anni fa ero convinto che la personale riserva di ricordi, immagini, luoghi e persone friulani che mi portavo dietro e dentro da più di 30 anni fosse sufficiente e appagante. Io che mi sento e che sono a tutti gli effetti un furlan tal cûr, friulano nel mio modo di essere e di pensare – è mia convinzione, non scientifica, che noi apparteniamo a  una speciale categoria antropologica -, ho scoperto con sorpresa e con gioia che il legame con la mia terra aveva, ha bisogno di essere alimentato, nutrito, rifornito. Sempre più spesso. Come il fuoco nel camino si spegne se non aggiungi altra legna, e l’auto ti lascia a piedi se non la rifornisci di carburante, o la passione d’amore langue se non viene continuamente ravvivata da parole e opere,  ho scoperto che anche questo legame ha bisogno di rifornimento, di essere nutrito e alimentato: dai tais in ostarie, dai volti degli antichi  e nuovi amici e compagni, da place san Jacum e dal profilo del Canin, dal sclopìt (grisulò) e dalla brovade, dal formadi da la latarìe di Feagne e soprattutto dalla marilenghe ascoltata e parlata…In questi due anni ho ritrovato e riannodato amicizie e affetti che pensavo ormai perduti per sempre mentre invece erano ben vivi sotto la cenere e le scorie che ogni esistenza deposita intorno e dietro di sé. E tutto questo anche, o forse soprattutto, grazie a Menon.

 

Durante questa impresa ho contratto e accumulato un debito di gratitudine e di riconoscenza enorme nei confronti di numerose persone. È quindi doveroso che, sia pure velocemente, io le nomini, scusandomi in anticipo se dimentico qualcuno.

Innanzi tutto la moglie di Menon, Silvia Sanvilli, che si fatta facilmente convincere a donare le carte del marito alla biblioteca Joppi consentendo in questo modo la costituzione di un tesoro documentario insostituibile per qualunque studio o ricerca futuri, Silvia che purtroppo non ha fatto in tempo a vedere neppure uno dei due libri pubblicati. A lei aggiungo i nipoti di Nino, ramo Bombi e ramo Sanvilli, che mi hanno sostenuto e incoraggiato in tutti i modi. E poi la prima parte della sigla editoriale KappaVu, vale a dire Alessandra Kersevan ma anche la seconda, cioè Giancarlo Velliscig. Gli amici carissimi che hanno scritto e lavorato per questo libro onorandolo con il loro contributo: Rienzo Pellegrini, Daniele Spini, Maria Carminati,  Gianni Cimador e Vittorio Vella che si è fatto totale carico della realizzazione del cd musicale: un  piccolo gioiello incastonato dentro un libro a sua volta prezioso per ricchezza di materiali e di documenti.

La mia gratitudine va anche ad alcuni dei miei compagni di classe di allora:  a Francesca Castellani e a Gina Misdaris, che mi hanno aiutato in modo decisivo nelle ricerche alleggerendo non poco il mio compito; ad Anna Storti che con i suoi ruvidi ma affettuosi e soprattutto competenti consigli ha impresso una svolta decisiva a tutta l’impresa. A loro aggiungo Antonella Gallarotti, responsabile dei fondi speciali della Biblioteca statale isontina, che per me ha fatto la ricercatrice sul campo e Daniela Negrini, cortesissima responsabile dell’archivio storico della bononiense Alma mater studiorum. E poi la biblioteca civica Vincenzo Joppi e il Comune di Udine che ci ospita stasera.

Un lavoro egregio anche per questo libro, visto che firma la copertina, ha svolto Cristiano Coppi, giovane artista e grafico pistoiese cui si deve l’ideazione e la realizzazione del sito web dedicato a Menon. Non posso poi dimenticare Giacomo Trinci, poeta finissimo e caro amico, che ha creduto in Menon e nel progetto fin dall’inizio; né posso trascurare quel galantuomo e gentiluomo dell’editore Nino Aragno che ha scommesso in modo incondizionato e disinteressato sul poeta di Medea.

Devo poi rivolgere tre ringraziamenti davvero speciali: il primo ai tre – condottieri? moschettieri? angeli? ma loro preferiscono essere definiti resistenti – di Postaja Topolove, la Stazione di Topolò: Moreno Miorelli, Donatella Ruttar e Michele Obit che per accogliere Menon hanno riaperto un calendario già chiuso e ‘blindato’, offrendo a chi vi parla la possibilità di fare, lassù nelle Valli, un’esperienza umana e culturale come non mi accadeva da tanti anni; il secondo «grazie» va a Gabriella Burba e Raoul Kirchmayr che mi hanno dato la possibilità di raccontare Menon al festival «FilosofiaGrado 2013»; e il terzo a Irmarosa Tomasini, anche lei ex allieva di Nino sia pure in anni diversi dai miei, che ha propiziato l’inserimento del nostro professore-poeta nel calendario della prestigiosa «Fiera delle parole» di Padova. Infine, ma non ultimi, ringrazio coloro che non desiderano essere nominati, ma  il cui aiuto, credetemi,  è stato assolutamente decisivo per la buona riuscita di tutto questo.

 Ho quasi finito, ma devo dire ancora qualcosa: a quelli che ho appena ringraziato, voglio aggiungere coloro che NON ringrazio. Non ringrazio coloro che dopo aver ripetutamente promesso di sostenere i libri e il progetto Menon si sono inspiegabilmente tirati indietro, e che, pur avendo già da tempo deciso per il «no», hanno continuato ugualmente a rassicurarmi con affabile ipocrisia. Non ringrazio coloro che non hanno avuto né la buona educazione né il coraggio di dirmelo in faccia o almeno a voce e mi hanno inflitto un’umiliante e offensiva anticamera che dura tutt’ora dall’aprile scorso, negandomi, dopo tante promesse, anche soltanto un banale colloquio telefonico.  Non ringrazio quelli che sono andati in giro a dire che «il dottor Sartori – grazie per il ‘dottor’ ma non era proprio il caso – sopravvaluta quel suo professore», come se Menon non fosse stato anche il loro professore allo Stellini. Evidentemente quel mio professore mette ancora soggezione a qualcuno. Evidentemente il poeta di Medea  turba ancora qualcuno di questi marcandai, loro sì veramente piccini in confronto a lui che giganteggia tutt’ora rispetto a loro. Non ringrazio coloro che, nel negare il loro sostegno, hanno accampato nobili motivazioni – cito: «le nostre priorità settoriali prevedono interventi mirati alla formazione dei giovani e all’impegno a favore delle categorie più deboli della società», mentre invece hanno continuato a sostenere iniziative editoriali analoghe alla nostra. Ma non la nostra. Peccato per loro, hanno perso un’occasione. A questi maleducati sorestans, che circondati e protetti da altezzose e  scostanti segretarie, amministrano i soldi destinati alla collettività, voglio dire solo questo: o vin fat istès, o vin fat dibessôi. E o sin contents di no scugnî dî graciis a int compagne[1].

Udine, 6 dicembre 2013

 Cesare Sartori

 




[1] «Abbiamo fatto lo stesso, abbiamo fatto da soli. E siamo felici di non dover dire grazie a gente simile».

Cesare Sartori

Gian Giacomo Menon nacque nel 1910 a Medea (Gorizia), allora territorio austriaco. Dal 1937 all’anno della morte (2000) ha vissuto e insegnato a Udine.
Pensiero individualista, solipsista, pragmatista, sostenitore della isostenia dei logoi, definiva così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura.

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