pei piani e le scale e le case della città e la notte
e non piuttosto l’una ch’era l’eternità dei risvegli
e ognuno della casa e i vetri senza vedere e il cando-
re verbale sul da farsi che non sapeva un altro più
del vicino ed isolato e sterile non volendo se non re-
stituire il suo nome ricevuto fino agli ultimi anni
e la terra coi servi e combinato di arnesi e di paure
e penetrare anche di schiena che aveva anche lì gli
indirizzi e gli eredi la proprietà dei fondi e si fre-
gava le mani e il resto dopo i divieti per vivere con
lui e il leo e il trùdere ch’era la sua stessa vita
riconosciuta prima dei fantasmi girando a lume di can-
dela e altrove pelle fughe non cambiando neppure una
lettera che si meritava e la roba muraria e da dozzi-
na e su su colle uccellande sportive colle allegre
cince dove sono in fiore le acacie cioè sui colli a-
prichi e apriti cielo per riguardo di lui che lo a-
spetta in compagnia delle belle speranze come pei fiu-
mi della patria e sono le bandiere e l’arma in mano
e non per perdonare per perdere figlio d’un prete
ch’era stato l’insolenza di un attimo come diceva e
la razza che si ripete e lo richiama in vita dopo gli
sciacqui e i destini e non lascia che scivoli via a
onta delle misure e tu eroe di cavalli ahi ch’era in
ritardo sui tempi di ieri quando poteva e le svelte
gambe il bastone alzato e i prati e il bosco che lo
nasconde

Gian Giacomo Menon nacque nel 1910 a Medea (Gorizia), allora territorio austriaco. Dal 1937 all’anno della morte (2000) ha vissuto e insegnato a Udine.
Pensiero individualista, solipsista, pragmatista, sostenitore della isostenia dei logoi, definiva così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura.

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