A Topolò, questa dolce sera…
9 agosto 2014
Serafino Loszach – Topolò 1921. Disegno
di Chiara Catapano
Quando infine, doppiata l’ultima curva in mezzo a questo verde-ossigeno confine tra Friuli a Slovenia, Michele Obit mi annuncia: «Ecco Chiara, ti presento Topolò!», comprendo. Comprendo l’attesa doppia: mia, di scoprire, e quella di Michele di intessere lo stupore, esserne un po’ artefice-complice, mi immagino, ogni volta che accompagna per la prima volta qualcuno nel paese di Topolò.
È a Michele che devo l’incontro: Michele Obit, giornalista e scrittore, amico oso dire dopo un pallido incontro d’una sera; ma una sera di Topolò. Comprendo che non è esagerato quel dire che si fa intorno a questo luogo, Topolò è così, Topolò è colà… Che Topolò è proprio questo ombelico d’ombra nello spirito d’ognuno, a saper ascoltare dentro il suo silenzio, nel diradare lungo delle ore nel crepuscolo, fiato di poeti e artisti, cui qui, come si fa con la natura, è dato ascolto. Topolò non è semplicemente bella: è un groppo infantile di lacrime nella gola chiusa del tempo, è l’infanzia dura e fragile dell’uomo. Grazie per avermi portata a Topolò, gli direi; ma taccio, come lui a lungo tace lungo la strada. Si fa così, penso, arrivati alle soglie di un luogo che pare aver scelto la poesia, e non piuttosto essere stato scelto dagli uomini per rappresentarla.
Topolò è un saliscendi, un’altalena di viotti stretti tra il verde e il grigio della pietra: porte aperte, mani alzate in segno di saluto. Proprio all’ingresso del paese, imboccata la prima erta, sulla destra sotto di noi, Michele mi indica la casa degli artisti: donazione di una anziana del posto perché chi viene da lontano a condividere versi, musica o segni, abbia un riferimento, una casa dove essere ospitato. E qui, continua Michele, ogni ottobre prende vita il progetto «Koderjana» (il cui nome rimanda a quello del ruscello che scorre sotto il paese): un artista rimane in solitudine per una settimana, assieme alla trentina di abitanti del paese; nel periodo che gli è dato, ispirato dal posto, produrrà la sua opera su Topolò. Incontro di vera conoscenza, mistica amicizia tra paesaggi ed essenze, spirituale e molto umano, come dovrebbero essere tutti gli incontri che durano. Michele mi regala una copia di un libro scritto proprio in una di queste occasioni dalla poetessa slovena Barbara Korum (Čečíca, turbata d’amore, il titolo) che sto leggendo con la cedevolezza di chi si vuol sentir parte, per averlo vissuto di persona, di quanto viene narrato. Passiamo oltre.
Al chiosco, prima della lettura da La graziosa vita, il libro-omaggio a Giovanni Boine scritto sotto l’eteronimo di Rina Rètis, mi viene incontro Francesco Tomada: me l’aveva detto che ce l’avrebbe messa tutta per esserci, così finalmente ci abbracciamo, benedetti dal luogo, in un abbraccio poetico che sottintende una umanità sana, agguerrita anche. Francesco, scoprirò durante la cena al chiosco, è un bravo insegnante, amato dai suoi allievi; non potrebbe essere diversamente, lo si comprende a prima vista che esserci come insegnante equivale ad esserci come uomo. Sono della compagnia mia cugina Manuela, musicista, che rivedo dopo molto tempo e che trascino – penso – in una ben strana avventura, nuova per me non meno che per lei; e poi ci sono Cesare Sartori e Cristina Privitera, sua moglie. Che sono lì, salutano Michele e ci invitano a bere qualcosa con loro. Chiacchiere, tante, e belle. Cristina, capo servizio della Nazione di Pistoia, ci narra le difficoltà della gavetta al giornale per una donna, negli anni che furono. E salta fuori non si sa come che Cesare ed io – uomo gaio, Cesare, e posato, dall’occhio tra il vigile e il curioso – abbiamo molte conoscenze in comune; udinese di nascita e toscano d’adozione (è stato giornalista della «Nazione» di Firenze per molti anni), ha curato una splendida raccolta di versi del poeta di Medea, Gian Giacomo Menon; meglio, è stato suo studente al liceo Stellini di Udine, e può parlarne nella doppia veste di studioso e allievo-amico, se per amicizia ritorniamo al felice concetto di rapporto tra essere umano e arte, che qui a Topolò germina incontri.
Cesare mi consegna una copia dei due libri di Menon che ha curato per Aragno e per KappaVu, aggiungendo che “li sa in buone mani”, e la precisazione mi muove a commozione. Comprendo qualcosa d’altro, dentro il paesaggio, che tira le fila di diversi destini: una compenetrazione di destini, attraverso il sottilissimo filo dell’arte, bellezza meno estetica e più nascosta, radice stessa del luogo. Menon, poeta che deve essere letto da chi la poesia la vuol conoscere nel suo aspetto intimo; laico ma estremamente spirituale di un uomo che ha scovato nel verso la sua forma di preghiera. Poesia-intimità antica, in cui son coinvolti più sensi; la poesia che è, nel ’900, storia comune; in cui riconoscersi mentre i linguaggi tutti sfumano nella contemporaneità, perdendo spessore.
La lettura è stata un bel momento, ma più del leggere i miei versi avrei voluto conversare ancora, conoscere più a fondo queste persone, care, che son venute a sentirmi. Accade e accadrà, altrove, spezzato l’incantesimo del luglio di Topolò. L’innesto avviato ci regalerà frutti nella stagione a venire, mentre saluto e ringrazio, d’esserne stata parte.
Si fa sera.
Da un versante
sorge la luna
come un bianco pane.
L’aria tremola
cucita da ricami.
L’ombra del bosco
giunge alla casa.
Lá due tacciono
in due lingue.
Sole-parola!
Il tuo scudo dorato!
Tacciono a voce alta.
(Barbara Korun, trad. Michele Obit)
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