Riscoprire Menon

di Gianni CIMADOR

A distanza di quindici anni da I binari del gallo (Campanotto, 1998), la pubblicazione di Poesie inedite 1968-1969 (Nino Aragno Editore, 2013) e di Qui per me ora blu. Una vita per la poesia (Kappa Vu, 2013), promossa con grande tenacia da Cesare Sartori, ci fa riscoprire Gian Giacomo Menon che, con il suo lungo percorso di vita (1910-2000), rappresenta in qualche modo la parabola e gli sviluppi della poesia del Novecento, come segnala anche il Fondo donato dalla famiglia alla Biblioteca Civica Joppi di Udine nel 2012, piccola parte sopravvissuta di un corpus vastissimo in gran parte distrutto dallo stesso autore.
Nato a Medea nel 1910 e formatosi prima al Liceo-Ginnasio di Gorizia e poi all’Università di Bologna con due lauree in Giurisprudenza e Filosofia, con l’eloquente appellativo di “Dinamite” Menon muove i primi passi nell’ambiente variegato e stimolante del cosiddetto “Futurismo di confine”, originalissima declinazione giuliana del Movimento, che ha tra i suoi esponenti Sofronio Pocarini e l’ “aeropittore” Tullio Crali, amico di Menon e compagno di esperimenti letterari: non ci sono tracce della pièce teatrale Delitto azzurro, le prime poesie compaiono sui periodici goriziani “Squille isontine” e “L’Eco dell’Isonzo” nel 1929 e nel 1930-31, mentre del 1930 è Il nottivago, un poemetto in versi liberi divenuto leggendario perché Menon fece sparire le copie giudicandolo troppo ingenuo, ma che suscitò l’attenzione di Marinetti (“Ingegno indiscutibile. Sensibilità futurista. Immagini audaci”) e nel quale possiamo già individuare, oltre al modello delle massime di Eraclito, anche alcune costanti della sua poesia, come la tendenza all’ambiguità, semantica e lessicale, al gioco linguistico paradossale ed enigmatico, la tensione verso l’ “illuminazione”, poetica e filosofica.
Al di là delle influenze futuriste, è rilevante la lezione di Mallarmé, dei simbolisti francesi (soprattutto Baudelaire e Rimbaud, i suoi “idoli”), di Valéry, del russo Esenin: di fronte al nodo novecentesco dell’assenza di contenuto e del nucleo vuoto del linguaggio, Menon ribadisce tuttavia la possibilità di una “pienezza”, per quanto enigmatica, delle parole, attraverso la creazione di una lingua autonoma che consenta la riconquista della propria realtà, rivissuta nella memoria.
Come confermano varie “note marginali” e le sintetiche autobiografie redatte nelle carte, Menon è vicinissimo al pensiero di Nietzsche, alla sua idea che la verità sia irraggiungibile, che non esistano fatti al di fuori della coscienza, alla denuncia di ogni “gregarietà” intellettuale, con l’affermazione della necessità di una vita autentica e libera. La consapevolezza dei limiti del linguaggio evoca certo anche Wittgenstein, come quella della “mortalità” rinvia ad Heidegger e alla sua rivisitazione della metafisica: sono tutte coordinate riassunte in una “nota” del novembre 1995, nella quale definisce una sorta di identikit del suo approccio alla realtà, caratterizzato da “Soggettività spinta, dubbio sistematico, isostenia, fede oscillante, paura, viltà, epoché”.
Oltre a tutto un orizzonte di riferimenti che vanno dallo Stoicismo a Pascal, da Schopenhauer a Leopardi, da Ortega y Gasset a Michelstaedter, un’altra figura molto importante nel pensiero di Menon è quella di Giuseppe Rensi, filosofo schivo e solitario, teorizzatore della “isostenia dei logoi”, di una visione della storia come caso e ripetizione, nella quale l’uomo è vittima inerme, preda della paura e del non senso (“Il caso, sì il caso, nessuna legge né di natura né di spirito, né bassa né alta”): a questa concezione Menon rimane sempre fedele e Carlo Sgorlon, autore con Maria Carminati della prefazione a I binari del gallo, lo definisce puntualmente “filosofo del nulla e poeta assoluto”, innamorato della scrittura e dell’ “avventura delle parole” come pratica di fuga e di resistenza, che trova solo in sé stessa la propria consistenza (“Gli oggetti: figure che si risolvono nella mia coscienza […] nella mia autocoscienza, a loro volta oggetti di me inspiegabili, nulla, niente”).
Già Antonio Barolini sulla “Fiera Letteraria”, per introdurre alcune sue poesie pubblicate nel 1966, scriveva che di Menon “non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è un poeta, un vero poeta, ed è questa forse l’unica cosa che conti”: la fedeltà, quasi ossessiva, alla parola poetica, che lo porterà a scrivere più di centomila componimenti (solo il Fondo alla Joppi ne conserva quasi diciannovemila), e a una vita separata e certo suggestiva e misteriosa come la sua poesia, si accompagnano al ruolo pubblico di insegnante di Storia e Filosofis, svolto dal 1937 al 1977 prima presso il Liceo Classico Stellini e poi presso l’Istituto Magistrale Percoto sempre a Udine, dove coltivò pochissimi rapporti, suscitando anche fra gli studenti o grandi entusiasmi o avversione per i suoi modi diretti e bizzarri, rivolti comunque sempre a stimolare l’autonomia intellettuale e critica.
Anche per la scelta di separatezza (fatta tuttavia dopo anni di intensa mondanità), Menon ha pubblicato pochissimo e nel tempo la sua poesia è passata gradualmente da un’impronta più simbolista e per certi versi montaliana (in particolare negli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche in seguito, a ridosso di Satura) a misure più libere e “ludiche”, accostabili alle pratiche surrealiste e dadaiste di “scrittura automatica” ma anche a esperienze, altrettanto anticonvenzionali, come quella di Pasquale Panella: alla consapevolezza della “dissolvenza / di questo mondo di ombre alla deriva” e di una “storia disarticolata / senza la vista di un piano” si contrappone l’ansia di una compiutezza che si può raggiungere solo nella scrittura, nell’invenzione di “paesaggi / fuori dalle gabbie quotidiane”, di “figure e parole / per non cedere alla suggestione del nulla”.
Le suggestioni visive e sonore, derivate spesso da un mondo contadino che costituisce un paesaggio-matrice, oscurano l’aspetto semantico e ci proiettano in un orizzonte che “sarà dopo la fine di questo singulto”, imponderabile come la “terribile sete dell’essere” e la “legge dell’inquietudine” che animano le poesie di Menon.
Nel rito dell’esercizio poetico, in cui sopravvive sempre una certa audacia sperimentale proveniente dalla stagione futurista, si consumano i “tristi rituali di solitudine / lo sgomento che cerca se stesso / negli specchi della memoria”, e nel senso di vertigine prodotto dalla successione ininterrotta delle metafore, quasi come in una “litania analogica”, si traduce la volontà di oltrepassare i confini del linguaggio per moltiplicarne i piani espressivi e raggiungere l’immediatezza di una assoluta “trasparenza”: in questo senso, il limite del “silenzio” e della sua profondità ineffabile, nel quale la filosofia e la poesia del Novecento sembrano essersi arenate, diventa una risorsa, anche rispetto all’impossibilità conoscitiva prodotta da un pensiero “negativo”.
La lettura di Menon è così prima di tutto una sfida intellettuale, in cui non dobbiamo avere la pretesa di raggiungere certezze e conforti metafisici. Ed è una poesia “fredda” e ostica anche dal punto di vista emotivo, “per la voluta contrazione, per l’oltranza con cui l’autore rimuove il vissuto, esorcizzandolo e sublimandolo. Liofilizzandolo. Un processo che travasa il reale in una maglia astratta, mineralizzata”: parlando dei Binari del gallo, Rienzo Pellegrini coglie la cifra distintiva di un universo poetico complesso, nel quale i binari sono il simbolo di un “percorso che si sottrae alla decisione del singolo: una ‘bivialità’ senza sbocchi, a confutare ogni velleità di ottimismo”, mentre nell’immagine ricorrente del gallo (che, insieme alla “gallinella”, ritorna anche in tanti divertissements giocosi) si concentra l’ansia, per certi versi biblica, di una rivelazione e di una chiarezza dischiuse da “nuove albe” che scardinano la monotonia di un tempo circolare, sottolineato dalla presenza frequente della metonimia.
Sempre Pellegrini rileva come I binari del gallo rappresentino un “contrassegno” della poesia di Menon, in cui si codificano i principi che ispirano le Poesie Inedite 1968-1969, ovvero “il rifiuto della punteggiatura come griglia gerarchica, il rifiuto di una sintassi articolata, a vantaggio della giustapposizione di segmenti esauriti nell’unità del verso, nel gusto di uno smagliante registro traslato”: la stessa tensione verso l’autonomia del significante si riscontra nei materiali del Fondo alla Joppi, che, tra l’altro, contiene le poesie del 1968 e 1969 pubblicate da Aragno e soprattutto carte composte in modo discontinuo dal 1988 al 1999.
Nel corso degli anni viene quindi meno la fiducia nell’univocità del significato delle cose, come rivela il progressivo indebolimento sintattico, e si accentua l’insistenza sul motivo della “persuasione”, che caratterizza anche la fenomenologia amorosa, percepita come “peripezia” che si risolve nella consapevolezza dell’inganno e in un inevitabile disinganno, nel confronto con un ‘tu’ che è spesso un “vocativo inespresso”, inafferrabile come la consistenza della memoria che lo evoca, espressione di una realtà dolorosamente negativa, frammentata e irrecuperabile (“L’invito di una perplessa svolta / cela forse un altro nome, / la tristezza di un occhio / lucido per autentiche lacrime”).
Nelle Poesie Inedite la tematica amorosa si inserisce in un “canzoniere” che vuole essere “scrittura quotidiana […] registro di emozioni, schedario delle figure di te … Sempre più, e forse soltanto, documenti di un sagittario in lotta con l’anatra”, assumendo l’aderenza e l’intensità di un gergo intimo, di difficile interpretazione, cadenzato da parole senhal che si ripetono e segnalano, oltre a “una tenerezza tutta interna”, anche una “strategia tesa a occultare: la volontà (e la necessità) del segreto d’amore, della copertura”: l’intreccio di questa dimensione medianica e dell’ossessione amorosa con una instancabile volontà sperimentale costituisce uno degli aspetti più affascinanti della poesia di Menon e del suo “centro segreto di frode”, della sua sfuggente ambiguità.
La “biografia” e, con essa, la storicità vengono assorbite dalla letteratura, bruciate “da quel continuo laborioso scriversi, cifrarsi che non dava tregua, continuamente assillava la vita, la chiudeva in ferree linee e insieme la offriva a impervie aperture, a libere auscultazioni” (Giacomo Trinci).
La stessa ansia di ricomporre la vita attraverso la scrittura, e di renderla così libera dalle contingenze empiriche della storia, determina una “poetica bifronte”, oscillante tra la memoria e la parola, tra l’ “ingorgo emotivo” e il compiacimento intellettuale, con combinazioni sempre imprevedibili, alla ricerca di una salvezza che può darsi solo nella scrittura, fuori dagli ostacoli del quotidiano, e che è perciò inevitabilmente sempre precaria: come dichiara Menon, “poesia è scrittura prosodica dove un azzardo di lacerti mnestici cioè una sequenza arbitraria di parole casuali sistema in forme pseudorazionali nella virtualità di un discorso, così dunque come di notte i cieli contano (dicono, danno) con ferma voce in nome delle stelle e di giorno passano le acque inquiete della terra e l’uomo, io, un uomo casuale nudo e impaurito annaspo cercando ganci di sopravvivenza”.
In questa direzione, acquistano un senso diverso gli espedienti stilistici ereditati dalla stagione futurista, con il suo culto dell’energia dinamica e “pirotecnica” della parola, sottratta a ogni contaminazione: la libertà del verso, il ricorso insistito alle procedure analogiche, il preziosismo lessicale, l’immediatezza di uno stile nominale che ricorda la lirica giapponese (“Nel cavo della tua mano, / nido di primavera, / ascoltare la pena, / becco spalancato …”), la frequenza di termini ossimorici, le serrate serie pronominali e aggettivali di certi dialoghi “in assenza”, la valorizzazione della molteplicità di livelli semantici delle parole costituiscono un idioletto personalissimo e originale.
Altrettanto personali sono le poesie in friulano, lingua che Menon non padroneggia ma utilizza con la stessa propensione all’invenzione linguistica: come osserva Pellegrini, si tratta di un “friulano non spontaneo, artefatto e straniato”, “codice della soggettività, lingua della lode e del tormento”, che tuttavia proietta su un piano cosmico le memorie di un’infanzia contadina percepita come grembo materno.
L’assolutizzazione della scrittura allontana inevitabilmente Menon dal sociale, rispetto al quale si evidenziano una “perplessa incompatibilità” e un lucido e disincantato nichilismo, che giustificano la sua “decisione di assenza” e lo riportano spesso a Michelsaedter o alle ricerche linguistiche del Neopositivismo, l’unica corrente filosofica contemporanea che Menon salva: la “scelta del niente” è radicale ma non sterile, perché si traduce nel “rischio del tempo”, nell’ostinata volontà di non cedere al “sempre del mai”, nella ricerca di un “dissonante altrove” e di “negazioni” che “riscattano il caro corpo”, nella scoperta di “solitudini dimenticate dal tempo / oggetti di fredda forma / ritagliati nel niente”, tra i quali “l’uomo si dissolve / puro di trascendenze / un cuore sotto vetro”.
In questa fuga dentro gli abissi della parola e nei “depositi della memoria / strato su strato”, la poesia di Menon diventa una vertiginosa mise en abyme che assorbe anche il lettore nella tensione verso un tempo “fermato sull’unica ora”, verso il “punto assoluto / dove il tempo ha i suoi nodi”: è l’attrazione heideggeriana dell’origine, che spinge a salire su “treni stellari” e ad “andare più svelti / e perdersi in spazi lontani”, anche se nulla è più forte del richiamo della terra (“restituirmi alle terre rosse / senza la pietra e il nome / e trovi mia madre negli occhi / mio padre e le stirpi:/ luoghi e l’infanzia / liberarmi dalla percossa del tempo / che escluda gli altri quadrati / l’ostinata parola di te”).
Menon è “vero poeta” perché, come osserva Giacomo Trinci, incontrare la sua poesia “significa fare l’esperienza di come un nome, un’ombra possano mutarsi in un fatto e incarnarsi in forme concrete di lingua accesa, franta, ma dura”, espressione emblematica di “un Novecento scorticato, bruciante, che sperimentava […] senza coltivare l’ideologia dello sperimentalismo”: questa intensità e la suggestione di una “verità abitata” hanno spinto musicisti come Enrico De Angelis Valentini, Cecilia Seghizzi, Piero Pezzé, Franco Dominutti, Daniele Zanettovich e James Dashow a scrivere musiche ispirate ai versi di Menon, percorsi dalla “ricerca strenua di un linguaggio che racchiude il senso ultimo delle cose” e “non si appaga mai in se stesso”, dal tentativo di “dare peso e sostanza a un furore nominante che è continuo movimento eracliteo, ricerca continua e spasmodica di verità esistenziale, lotta contro ogni incrostazione”.
Riscoprire Menon significa ritrovare il senso più autentico e profondo della poesia che è potenza creativa della parola, creazione di un mondo dove la vita diventa l’opera perfetta.
[pubblicato su «La Panarie», Udine, giugno 2014, n. 181, a. XLVII, pp. 19-24. La rivista (oggi trimestrale), fondata nel 1924 da Chino Ermacora, nasce come custode e lievito del patrimonio culturale della terra friulana che Ippolito Nievo definì, con felice espressione «compendio dell'universo».]

Gianni Cimador

Gian Giacomo Menon nacque nel 1910 a Medea (Gorizia), allora territorio austriaco. Dal 1937 all’anno della morte (2000) ha vissuto e insegnato a Udine.
Pensiero individualista, solipsista, pragmatista, sostenitore della isostenia dei logoi, definiva così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura.

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