«Menon, una luce che si accende improvvisa dopo un lungo buio»

[…] Un giorno, verso la fine della seconda liceo [il Dante Alighieri di Gorizia], a maggio [1950] inoltrato, quella che ancora inutilmente amavo e che da sette mesi non mi rivolgeva la parola, mi si avvicinò e con tono mellifluo che a me parve sincero, mi sussurrò che, se davvero l’amavo, avrei dovuto andare ad aprire il cassetto di un certo professore e a sbirciare i voti che quello le aveva dato. Alla mia risposta, che certo l'amavo ma che quella sarebbe stata una frode, assunse un'aria severissima e mi diede del vile. Imbecille tre volte, corsi ad aprire quel dannato cassetto, ma già mentre lo facevo mi accorsi che era una trappola, poiché colei era corsa a sghignazzare di me insieme con un gruppetto di sue amiche. Vidi che una delle amicastre correva ad avvertire il professore, un tipetto vanesio che fra l'altro metteva le mani addosso alle allieve senza che quelle si turbassero troppo. Costui mi spedì dal preside, e mi venne inflitta una sospensione di due settimane. Ritornai a scuola quasi alla fine dell'anno, deciso a ritirarmi e divenendo di colpo privatista, per presentarmi alla maturità con un anno d'anticipo, saltando la terza liceo. Avevo già saltato tre anni fra elementari e liceo, e quindi ero di tre anni più giovane di tutti i miei condiscepoli. Alla fine della seconda liceo avevo 15 anni anziché 18, e questo spiega la mia ingenuità.
Dovetti procurarmi i programmi di terza liceo per tutte le materie d'esame. Ero circondato da un gelido clima di scetticismo e di derisione. Poiché studiavo musica e suonavo il pianoforte (al mio livello, ovvio!) ero considerato da alcuni uno scemo, da altri un effeminato. Alcuni insegnanti - che mi avevano in antipatia poiché in classe avevo corretto (ma non tendenziosamente: semmai, per collaborare, o magari perché mi prendessero almeno un po' in considerazione) alcuni loro errori in materie che conoscevo bene come la storia, la geografia, l'astronomia, e ovviamente la musica - cercarono di ‘rovinarmi’, dandomi informazioni volutamente errate sui programmi di terza. Superai comunque le prove scritte molto bene, ma sugli orali tutti facevano sinistre previsioni, proprio per quelle incongruenze e mie lacune materali di preparazione. In matematica e fisica ero ferrato, ma le paurose debolezze erano nella preparazione sugli autori latini e greci, nonché in filosofia.
Ed ecco entrare in scena Menon, circondato da una fama terrorizzante. Non appena appariva, sempre puntualissimo, scendeva un silenzio sepolcrale. Le ragazze, per il terrore, tremavano. Lo sentivano tutti come un'entità malvagia, sottolineata dalla sua statura napoleonica, e quindi tanto più connessa con un'immagine vendicativa, di rivalsa sul mondo (ciò che era l'opposto della realtà, e io credetti di capirlo). Comunque, Menon, che faceva sottocommissione con i commissari di scienze e di matematica-fisica, seminò davvero una strage. Quando toccò a me, andai verso di lui come alla rituale mactatio. Ero rassegnato.
Mi sedetti. Mi guardò con severità: aveva visto il mio incartamento e sapeva che mi era dimesso all'ultimo, che mi presentavo come privatista non per difetto ma per indignazione. Alle prime domande, che ai miei condiscepoli astanti parvero difficilissime e li empirono sia di maligna disperazione per la mia imminente caduta sia di terrore circa la loro sorte, mi parve che si aprissero le porte del paradiso. Mi capiva! Mi leggeva dentro. Capì che io lo stavo leggendo dentro. Mi domandò se, essendo goriziano e intenzionato a studiare filosofia, sapevo chi era Carlo Michelstaedter. Mia nonna era intima amica della sorella di Michelstaedter, Paula Winteler, che mi aveva regalato molti scritti di Carlo in edizione originale, compresa la prima edizione di La persuasione e la rettorica, che ho con me da sempre. Ne fu compiaciuto. Mi domandò quale fosse per me il maggiore merito della filosofia occidentale a partire da Kant. Risposi che era stato l'avere reso superflua l'idea di Dio, ma forse, aggiunsi, merito ancora maggiore era quello specifico di filosofi come Nietzsche, Husserl, Heidegger, Ugo Spirito (quale ingenuità da quindicenne, un simile accostamento!). Alla fine, disse: «Purtroppo dobbiamo interrompere, mi consta che vi sia un corteo di postulanti». Dagli altri quelle parole furono sentite come crudele umorismo, e accompagnate da soffocate imprecazioni e maledizioni. Di quella mia brevissima esperienza colloquiale con Menon ricordo la frequenza con cui egli diceva: «Mi consta... non mi consta».
Mi alzai, felice poiché avevo capito che tutto era andato per il verso giusto. Grazie a Menon, alla sua personalità, la mia vita da allora subì una svolta: capii come sia possibile che non sempre i vili e gli imbecilli s'impongano. Negli anni d'università, ricordai spesso il suo modo di parlare e di condurre un ragionamento, la sua signorilità nel rivolgersi a uno studente quindicenne e forse un po' presuntuoso, ma non parassita. L'immagine che ho sempre avuto di lui è stata di una luce che si accende improvvisa dopo un lungo buio.
Quirino Principe

Pennino

Gian Giacomo Menon nacque nel 1910 a Medea (Gorizia), allora territorio austriaco. Dal 1937 all’anno della morte (2000) ha vissuto e insegnato a Udine.
Pensiero individualista, solipsista, pragmatista, sostenitore della isostenia dei logoi, definiva così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura.

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