Gianni Picco ricorda il professor Menon
Erano i primi anni Sessanta quando entrai allo Stellini e nel luglio 1971 (con la laurea a Padova) si chiudeva non solo la mia esperienza studentesca in Italia, ma anche la mia residenza nella penisola. La mia narrative che in inglese-americano significa più o meno la mia forma mentis, era stata scolpita dalla storia familiare così come si era svolta in quell’angolo di mondo che era il Friuli strizzato fra Italia, Austria e Jugoslavia. Ero cresciuto non solo fisicamente ma soprattutto mentalmente all'ombra della «cortina di ferro» e i frammenti di un intero secolo avevano finito per essere gli ingredienti costitutivi di quello che sono ancora oggi. I confini di quei tre Paesi erano cambiati tre volte nella vita della mia famiglia: quando mio nonno aveva vent'anni, quando mio padre era ventenne e poi di nuovo quando anch’io raggiunsi quell'età.
Gli anni Sessanta, poi, furono gli anni dei movimenti studenteschi in tutta Europa, la prima vera grande ribellione della generazione nata dopo la Seconda Guerra Mondiale: dal Vietnam alle invasioni sovietiche, prima dell'Ungheria nel 1956 poi della Cecoslovacchia nel '68. Il fascino del cambiamento aveva attratto e sedotto una nuova generazione, cioè la mia, e la reale possibilità di contribuire direttamente e personalmente a quel processo di trasformazione radicale trovò in Gian Giacomo Menon, tra i primi, una voce che pareva in sintonia con quel mondo che cercava faticosamente e con grandi difficoltà di cambiare. Non nel modo ideologico e banale che appariva dalle prime pagine dei giornali, ma in uno assai più profondo: lui non si stancava di ripeterci, con monotona convinzione, che tutti i grandi uomini il loro contributo al mondo lo avevano dato prima di avere compiuto i 29 anni. Oltre quell'età, sosteneva Menon, c'era ben poco che uno potesse aggiungere.
Provocatorio ma in modo anomalo negli anni della contestazione, della prima scossa al mondo «bipolare» di allora. Non faceva un discorso ideologico, buono per la piazza, ma molto più profondo e duraturo. In inglese c'e un detto: «If not now when, if not me who?». In altre parole la responsabilità dell'individuo nel presente, nel costruire quello che ancora non esiste ancora cioè il futuro. Nel messaggio anomalo e dirompente di Menon trovai più tardi la mia interpretazione: la storia non si ripete mai perché almeno una dimensione del domani non è uguale a quella di oggi cioè il tempo; ma molto più forte era il suo modo non tradizionale di spronarci ad assumere le proprie responsabilità: se vuoi davvero costruire qualcosa di nuovo e di valido, comincia con te stesso e da te stesso con le tue azioni.
Ma c'era anche qualcos’altro nel messaggio di Menon che mi divenne chiaro soltanto molti anni dopo: sono convinto che lui non sia stato trattato bene dalla società dove visse. Non posso dire se e quanto questo fosse all'origine del suo modo di essere e di comportarsi: avviluppato nell’immancabile impermeabile Vatro, occhiali scuri e zero vita sociale.
Menon mi avrebbe capito. Avrebbe anche fatto suo l'incredibile fenomeno dell'empowerment dell’individuo e la decadenza delle istituzioni che dopo l'avventura napoleonica vennero maritate non più al genio dell'individuo ma alla meglio controllabile «mediocrità». Il politologo e romanziere John Ralston Saul e Gian Giacomo Menon avrebbero dovuto conoscersi: entrambi erano stati sconvolti dall’arroganza dell’ignoranza; entrambi mi hanno aiutato, forse, a capire il mondo in cui ho passato la mia vita e a osare di «fare ciò che le istituzioni non mi avrebbero permesso». Paradossalmente, Menon avrebbe anche capito un uomo, per altro completamente diverso da lui, che mi permise di operare in modo anomalo, ma con risultati pratici e visibili in teatri di tre guerre: Perez De Cuellar (che fu segretario generale dell’Onu per 10 anni dal 1982 al 1991) richiedeva un impegno totale dai tre-quattro fedeli assistenti che lavoravano con lui a stretto contatto di gomito: «Se vuoi veramente ottenere risultati in guerra e in pace, dimenticati la pensione e assumiti la responsabilità personale; a chi ha successo sul terreno - visibile e misurabile con i nomi e cognomi di chi venne salvato e di chi non venne inutilmente ucciso -, nessuna istituzione lascia raggiungere l'età della pensione». Aveva ragione; Menon avrebbe apprezzato.
Un altro grande uomo con cui ebbi l'onore di lavorare (in lì modo anomalo) fu il generale Brent Scowcroft, personaggio chiave nella fine della guerra fredda, forse il più «grande» americano (anche se di statura menoniana!) con cui ho avuto l'onore di collaborare. Brent mi ricorda la figura di Menon perché anche lui sgattaiola tra la folla senza farsi notare. Entrambi allergici alle folle e alla notorietà, mi hanno insegnato che il peggiore aspetto dell’ignoranza non è il non sapere bensì l’arroganza.
Quando scoprii Milan Kundera e la sua «insostenibile leggerezza dell'essere», mi ritrovai a chiedermi se per caso non avesse anche lui avuto a che fare con Menon. Era come vedere la realtà vera che sta dietro allo schermo, superficiale e banale, che le televisioni e i giornali ci propinano, per di più con errori. Lo scrittore ceco lasciava Praga proprio quando io feci la mia unica esperienza in una università al di là di quella che allora era ancora la cortina di ferro; ma Kundera era già in Svizzera. Purtroppo non sono mai riuscito a leggere Franz Kafka, cosa che sono sicuro Menon fece invece con intensità: no, non sono mai arrivato ai suoi livelli di cultura e conoscenza. Allo Stellini pensavo che non sarei mai riuscito ad arrivare alla profondità e alla vastità del sapere di Menon: non penso di essermi sbagliato anche perché non penso che condividesse con i suoi allievi tutto quello che sapeva. Ma sapeva seminare, consapevole che il vento a volte fa cadere i semi su un terreno fertile e molte volte, nella grande maggioranza dei casi, invece, su quello arido.
Oggi dopo quasi una vita, avrei molte cose da discutere con Gian Giacomo Menon: una discussione che non saprei con chi altro fare o avere (forse 4 altre persone nel mondo che ho conosciuto): mi capirebbe al volo. Gli parlerei della prossima fine dello Stato-nazione nato a Vestfalia e radicato sull’arma segreta della choice-less identity and the need of an existential enemy, un tabù oggi sempre meno sostenibile. Avrei voluto condividere con lui (e studiarmi la sua reazione) quanto mi disse in faccia un tale chiamato Saddam Hussein: «Tu Picco sei un mio nemico e io sono un tuo nemico, questo lo capisco; quello che non invece capisco sono gli europei: non sono né carne né pesce! ». Menon avrebbe apprezzato: io non ho avuto questo lusso perché sono sopravvissuto fisicamente al dittatore di Baghdad. Ma Menon mi avrebbe anche spiegato che l'Occidente è diviso tra i figli di Cartesio e Hegel e quelli di Locke e Hume: una distinzione che non è solo filosofica, ma molto pratica. Menon non credeva nel concetto di imparzialità e nel mio percorso professionale fatto di negoziati, me ne resi conto sulla mia pelle: l’imparzialità è un’inutile illusione; nessun negoziato di successo che io sappia è stato concluso da chi si era illuso di usare il concetto di imparzialità. Il mio percorso umano (geografico e mentale) mi ha permesso di capire forse un po' di quanto Menon ci insegnava.
Se potessi, oggi gli racconterei quello che ho appreso nelle strade di questo mondo in guerra dall'Hindukush al Mediterraneo. Dopo decenni di cammino attraverso tre guerre (no, non in modo diplomatico) e l’assurdità delle «identità che devono uccidere per autodefinirsi» (les identités meurtrières, come le ha definite Amin Maalouf) credo di essermi ricollegato idealmente con Menon: quello che non riuscii a comprendere da adolescente quando lui ci insegnava, sono riuscito a capirlo camminando nelle strade di Paesi in guerra. A volte mi sono chiesto se Menon non sia vissuto nel Paese e nell’epoca sbagliati. Ero convinto allora, ascoltandolo nelle aule dello Stellini che fosse un pessimista a oltranza. Forse lo era rispetto alla società, non certo riguardo all'individuo. E comunque così ho vissuto e regolato la mia vita. Non si sopravvive alle guerre senza una qualche fiducia in qualche individuo anche se viene meno quella nelle istituzioni.
Menon avrebbe apprezzato la follia della narrativa irlandese che cominciai a conoscere molto presto grazie ai miei soggiorni a Dublino fin dagli anni menoniani (1960) e poi attraverso una parte della mia famiglia. La narrativa irlandese mi sembra molto simile a quella friulana e carnica degli anni della mia fanciullezza; Menon avrebbe apprezzato Seamus Heaney, premio Nobel per la letteratura e amico della mia famiglia, uno che il mio secondo figlio, incantato, stava ad ascoltare in silenzio già quando aveva solo 4 anni. Menon lo avrebbe capito. Heaney comunica credo il fallimento del mondo e la speranza dell'individuo nei versi di The Cure at Troy, un adattamento del Filottete di Sofocle, quando scrive: «History says, don't hope / On this side of the grave. / But then, once in a lifetime / The longed-for tidal wave / Of justice can rise up, / And hope and history rhyme. // So hope for a great sea-change / On the far side of revenge. / Believe that further shore / Is reachable from here. / Believe in miracle / And cures and healing wells».
E così mi pare che Gian Giacome Menon in modo misterioso, ma reale, abbia veramente segnato ante litteram il mio percorso umano. Ma non era un profeta, no. Né lui né io, penso, avevamo «quella» fede. E a lui, insegnante di liceo o più esattamente maestro di vita, oggi sono riconoscente: se sono vivo è forse anche grazie a quello che lui mi ha insegnato: «We are what we do and we do only what we really are». Spero di avere non soltanto capito ciò che il professor Menon mi ha insegnato in tre anni allo Stellini di Udine, ma soprattutto di averlo vissuto.
Giandomenico Picco