Cristina Privitera su Menon
Chi si prende cura dei poeti? Non di quelli conosciuti, amati, citati e che fanno riafforare le emozioni delle nostre vite, le sottolineano, innescano malinconie e alimentano rimpianti. Questi hanno tanti che ne curano il ricordo, indagano sulle loro esistenze, sui sentimenti, le relazioni, i deliri che ci hanno lasciato come segno del loro passaggio. Chi si cura di quelli scomparsi insieme alla fine della loro vita, inascoltati e perduti nello scorrere degli anni?
Bisogna avere passione, tenacia, un po’ di testardaggine e caparbietà, essere convinti che si sta affrontando un’opera impossibile, ma che val la pensa di tentare, oltre a qualche dote investigativa, per riuscire a far riemergere dal nulla, dalla frantumazione dei ricordi, chi era già stato cancellato dal tempo. Può capitare così, quasi per caso, che uno di questi poeti evanescenti per l’inconsistenza dei loro segni tra di noi, torni far sentire la sua voce. Ma ci vuole qualcuno che se ne prenda cura, incondizionatamente, senza attendersi niente in cambio, come succede per l’amore che si ha verso i figli.
Gian Giacomo Menon (Gorizia 1910- Udine 2000) sarebbe rimasto un nome, un uomo piccoletto, bruttino e bizzarro, un professore di storia e filosofia che non poteva lasciare indifferenti, più spesso detestato che amato, per la sua stravaganza, la ruvidezza e l’anticonformismo che volutamente ostentava. Scriveva poesie, da sempre, in modo compulsivo se non ossessivo, ma lo sapevano in pochi. Aveva pubblicato pochissimo: aspirava a vedere i suoi versi raccolti, magari sotto il nome di un editore di prestigio, ma ha atteso invano che qualcuno glielo chiedesse. Nessuno (o quasi) lo cercò mai, se non in una sola occasione.
Menon era piuttosto, per tanti suoi studenti del liceo classico Stellini di Udine – gente che non era ancora diciottenne subito prima o subito dopo il Sessantotto - un insegnante di quelli che non possono che lasciare tracce. Che fosse coltissimo e un anticipatore rispetto al clima bigotto, cattolico, conservatore e un po’ claustrofobico di quella provincia marginale del Nordest italiano, i suoi studenti lo intuivano. E qualcuno tra quei ragazzi, in gran parte della buona borghesia senza scosse di una terra lontana ancora da qualsiasi fermento di rivolta, ne rimaneva affascinato. Menon non era un rivoluzionario, non era marxista, non era neppure di sinistra. Aveva aderito da giovane al movimento futurista, dopodiché ogni etichetta per incasellarlo appare posticcia. Ma proponeva autori e riflessioni fuori dagli schemi ingessati dell’epoca.
Aveva carisma, una carica quasi erotica che avvolgeva chi aveva di fronte in classe. Un carisma intessuto di provocazioni, sintomo della voglia di stupire e di farsi notare. E per questo spesso lo trovavano insopportabile.
Le sue provocazioni erano mitiche e spunto di conversazione tra i suoi ex studenti anche decenni dopo la fine del liceo: dalle liquirizie sputacchiate dalla bocca sdentata sui quaderni di appunti delle ragazze dei primi banchi, allo spengere e accendere la luce nelle aule con il piede, al presentarsi a scuola imbacuccato nel cappotto anche quando c’era caldo, indossando per di più due paia di occhiali, uno sopra l’altro, al leccarsi ostentatamente le dita bianche di gesso.
Amava in particolar modo il contatto con le giovani fanciulle, alcune poi trasfigurate in sue muse poetiche. Erano le vittime predilette del suo non celato esibizionismo: non si faceva nessuno scrupolo a costringerle a rannicchiarsi nel banco per sedersi accanto a loro e da lì fare lezione.
Rimanere indifferenti era pressoché impossibile. Perché era un affabulatore e le sue provocazioni si declinavano anche in massime perentorie, rimaste indelebili. «Se fate figli, non vi voglio più vedere», tanto per citare un esempio fra i tanti.
Lui di figli non ne aveva e non ne avrebbe avuti. Aveva una moglie, Silvia, morta pochi mesi fa, che era stata sua studentessa. Ma non aveva una vita sociale. Era un isolato volontario da quando, a 47 anni, aveva scelto di chiamarsi fuori da ogni forma di vita sociale e di concedersi contatti umani solo per insegnare o per amore. Il resto del tempo scriveva poesie e rincorreva fanciulle, chimera irresistibile di una gioventù persa.
Fin qui quello che più meno era noto di lui. La sua fiammella nel ricordo collettivo era assai flebile e presto si sarebbe spenta. Ha ripreso invece inspiegabilmente vigore da un banale ritrovo conviviale di suoi ex liceali ormai ultrasessantenni, dalle chiacchiere condite di ricordi e di bicchieri di vino. Quei ricordi dei suoi gesti e delle sue parole ancora vividi, se solo si aveva l’occasione per confrontarli, sono stati quasi un’altra provocazione tardiva del professore.
Il riemergere del poeta-insegnante, incapace di vivere il suo tempo come i clichè avrebbero imposto, prende forma mese dopo mese. A innescare il meccanismo un suo ex studente, forse più degli altri, o forse solo il più consapevole di dovergli restituire qualcosa, Cesare Sartori. Una volontà, la sua, di soffiare via la patina di polvere da quel milione di versi – fatto di per sé straordinario – scritti, corretti, ripresi e lasciati da Menon in decenni di febbrile lavoro. L’opera dell’insegnante che riemerge a poco a poco grazie al lavoro quotidiano dell’ex studente, anche questo ai limiti dell’ossessione, quasi un filo che lega i due. Una storia che diventa doppia, oggi e ieri, chi parla e chi ascolta, chi lascia segni e chi li ritrova. Una figura alla quale mancano tanti pezzi: chi era Menon? Che valore ha la sua poesia? Qualcuno vorrà pubblicarla? Qualcuno vorrà studiare quello che ha lasciato? Perché si è isolato dal mondo? Chi ha conosciuto, chi frequentava, chi ha amato, chi ha ferito, chi l’ha deluso? E perché quella smania di scrivere?
Un giorno dopo l’altro, contatto dopo contatto, bussando a tante porte, talvolta ottenendo qualche no – perché al nominare Menon ancora c’è chi si ritrae – l’ex studente ricostruisce, ricompone, riannoda fili che neanche sapeva esiste. E dal passato riemergono tracce, l’entusiamo della riscoperta si fa contagioso. Una (allora) diciottenne adorata da Menon, un’altra sua ossessione, che dona le poesie che l’ex professore aveva scritto per lei, e lettere d’amore, parole calde, passione trasfigurata in un linguaggio evocativo ed ermetico, cifra della sua scrittura. Un liberarsi anche per lei di un’ossessione, di un ricordo che ancora le fa bruciare una ferita aperta da un poeta allora quasi sessantenne che quarant’anni fa non voleva allontanarsi da lei, la bramava e la braccava, pur sapendo di essere senza speranza. Ora le poesie e le lettere sono in una raccolta pubblicata nel 2012 da Aragno. Altre liriche sono diventate un altro libro (KappaVu edizioni, 2013), per il quale la coppia Menon-Sartori è riuscita anche a smuovere il mondo accademico: un docente di letteratura di Trieste ha scritto il primo saggio critico sull’opera poetica del professore. Ma la sorpresa è in musica: spuntano componimenti di dieci musicisti ispirati alle liriche di Menon, recuperati, riarrangiati, registrati e ora in un cd allegato al libro di KappaVu.
Intanto Menon ha trovato uno spazio tutto suo nella biblioteca civica Joppi di Udine: è stato istituito infatti un Fondo documentario dedicato a tutta la sua produzione recuperata in tre anni di lavoro dell’ex studente, grazie alla collaborazione dei familiari del poeta. Una borsa di studio ha permesso a un ricercatore di ordinarla e catalogarla.
A volte può succedere l’imprevisto: che ci sia qualcuno che si prende cura dei poeti dimenticati.
Cristina Privitera